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UNO, NESSUNO E CENTOMILA
di
Luigi Pirandello

NOTE DI REGIA

Uno, nessuno e centomila, come i più grandi romanzi pirandelliani (Il fu Mattia Pascal e Quaderni di Serafino Gubbio operatore) è scritto in prima persona. Da un punto di vista teatrale, è un lunghissimo monologo che Vitangelo Moscarda “rappresenta” dinanzi al suo pubblico quando la vicenda è ormai conchiusa (esattamente come Mattia Pascal e Serafino Gubbio): chiuso nell’ospizio da lui stesso fondato, al caldo della sua coperta verde che tiene sulle ginocchia.

Perché parla, Vitangelo Moscarda? Perché racconta e spiega ciò che gli è accaduto? Probabilmente perché dopo la sua terribile scoperta (che nulla è fisso e immutabile, se non la morte) non ci resta che raccontare, magari infinite volte la stessa storia, perché ogni nuovo racconto dischiude un senso, anche se quel senso non è mai definitivo ed è modificato dal successivo, in uno sforzo ermeneutico infinito la cui giustificazione teorica avrebbe cominciato a darla, l’anno successivo alla pubblicazione di Uno, nessuno e centomila, Heidegger pubblicando Sein und Zeit.

I nomi dei personaggi, nell’opera di Pirandello, sono scelti con una cura volta a racchiudere in essi vere e proprie chiavi interpretative che guidano il lettore ai livelli più profondi dell’opera stessa. Così anche nel caso di Vitangelo Moscarda. Utilizzando un percorso già sperimentato in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Uno, nessuno e centomila egli colloca la vicenda, i fatti, le situazioni e i personaggi in un ambito teso fra il su-umano e il sovr-umano. Così come in Quaderni di Serafino Gubbio il nome del protagonista rimanda a una realtà sovr-umana, quella angelica, in Uno, nessuno e centomila, il nome del protagonista torna a evocare una creatura angelica; e così come nel romanzo del 1915 tutti gli altri personaggi rimandano, nei loro tratti, al mondo sub-umano degli animali (la Nestoroff è una tigre, Luisetta Cavalena un cagnolino, Carlo Ferro un orso…), in quello del 1926 il cognome del protagonista, come egli stesso puntualizza, rimanda alla mosca. Verrebbe da dire che in Pirandello riecheggi il nietzschiano “umano, troppo umano”, con cui egli svela genealogicamente l’origine meramente umana di costrutti per i quali, poi, si pretende eternità e immutabilità.