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Ma non è questo il punto. Non interessa sapere “come va a finire”. Attraverso questa esile storia, Čechov ci ha messo dinanzi persone (non personaggi) che, per quanto radicate nella Russia della fine del XIX secolo, ci appaiono contemporanei per la verità del loro mondo interiore. E, soltanto per accennare a uno dei molteplici aspetti di queste vite, chi partecipa a Zio Vanja ha modo di ridere della tronfia prosopopea di Serebrjakov, di urtarsi per l’artificioso cinismo ostentato da zio Vanja, di adagiarsi nella rassicurante bonomia di Marina, d’irritarsi per la sconcertante ignavia in cui è immersa Elena, di entusiasmarsi per gli avveniristici progetti di Astrov, di commuoversi dinanzi alla disarmante fiducia nella vita che ha Sonja. E prova questi sentimenti perché in ognuno di essi riconosce tratti di sé.

Se un regista riesce a non sciupare il delicato equilibrio dei testi di Čechov può dirsi pienamente soddisfatto: non deve mettersi di mezzo, non deve aggiungere, non deve cercare di spiegare, non deve rendere esplicito.

Com’era solito dire Čechov a Stanislavskij: “Tutto è già scritto!”

Aggiungo io: “Lo si può soltanto sciupare”.

Ho diretto tre testi di Čechov in tre fasi diverse della mia vita.

Il gabbiano, quando ancora non avevo trent’anni (l’età in cui Čechov scrisse Zio Vanja): lo affrontai con incoscienza, cercando di sottolineare ciò che mi sembrava importante con la colonna sonora e affidandomi a un realismo naturalistico che, avrei capito dopo, se è naturalismo non è realismo.

Il giardino dei ciliegi, quando avevo trentotto anni (l’ètà che aveva Čechov quando Zio Vanja fu portato in scena) e avevo cominciato a intuire qualcosa del mondo straordinario dei testi cechoviani: il naturalismo cedeva decisamente il passo al realismo e il silenzio diventava la cosa più importante da interpretare.

Zio Vanja l’ho affrontato adesso che ho superato i cinquant’anni (Čechov non li avrebbe mai raggiunti poiché morì a quarantaquattro anni) e, per quanto ancora molto mi resti da comprendere di Čechov, il suo modo di vedere la vita ha profondamente ispirato il mio modo di rapportarmi a essa, cosicché Čechov me lo porto dentro non soltanto quando dirigo un suo testo e tutto questo si traduce, nell’impostare una regia, nel sottrarmi quanto più mi è possibile per lasciar parlare ciò che ha scritto, pur sapendo che questo impegno resterà sempre e soltanto un tentativo.

GIANCARLO LOFFARELLI