All'interno di questo impianto, Shakespeare mescola diversi materiali, comprese fonti letterarie come il Metamorphoseon di Ovidio e il saggio Des cannibales di Montaigne e crea un intreccio originale con cui, fra l’altro, per l’ennesima volta, ci confida il proprio rapporto con il teatro.
Gli antefatti ci vengono narrati dai personaggi: Prospero racconterà a Miranda la vicenda della sua cacciata da Milano, del viaggio in mare e dell'approdo sull'isola; Ariel elencherà ad Alonso e Antonio i loro "peccati" contro Prospero; Caliban ricorderà quando sua madre Sicorace e lui erano i soli padroni dell'isola.
The tempest, insomma, ha tutte le caratteristiche di una grande retrospettiva. E non è difficile vedere in essa una retrospettiva allegorica che il poeta fa di se stesso e della propria arte. Quando scrive l’opera, Shakespeare ha 47 anni; il ciclo delle grandi tragedie è concluso; la fama e l'agiatezza sono state raggiunte, forse il suo animo è un po’ stanco ed egli pensa al ritorno a Stratford, dove ha acquistato un’importante proprietà immobiliare.
Con questo lavoro il poeta prende, dunque, congedo dal palcoscenico; prima di farlo si volge indietro e ripercorre il proprio cammino artistico identificandosi nell'immagine di Prospero che, alla fine, spezzando il proprio bastone, mette fine al mondo magico da lui stesso creato.
È, forse, il testo sull’eterna contrapposizione (dialettica nel senso propriamente hegeliano) fra contemplazione e azione, cultura e politica, pensiero e prassi. Prospero, con le sue conoscenze, agisce? Oppure per agire ha bisogno della mediazione di Ariel, cui ordina di scatenare la tempesta?
Proprio per questo, il lavoro drammaturgico e registico da me operato sul testo di Shakespeare, ho voluto chiamarlo La tempesta di Prospero. Prospero è colui che scatena la tempesta e che, attraverso le proprie arti, produce tutta la vicenda, esattamente come accade al drammaturgo. In tale prospettiva, ho inteso limitare al massimo l’interpretazione delle “arti” di Prospero come arti magiche. Prospero non è un mago, bensì un intellettuale, il suo è un bastone, non una bacchetta magica e il suo mantello non è altro che un cappotto; vive per i suoi libri, in qualche modo ha permesso a suo fratello di congiurare contro di lui proprio perché, volendosi dedicare allo studio e alla cultura, ha abdicato alla vita politica. Altro grande tema, dunque, proprio questo, al centro di questo lavoro: il rapporto fra cultura e politica, fra azione e contemplazione, volto a lasciare al pubblico in eredità la domanda se sia possibile che i corni di questa problematica possano sintetizzarsi o debbano, inevitabilmente, porsi come alternativi.
La centralità di Prospero è però inevitabilmente connessa a quella delle due figure che vengono presentate come suoi “servitori”: Ariel e Caliban. Apparentemente opposti, lo “spiritello” Ariel e il “mostro” Caliban, a mio avviso, si presentano come le due facce della stessa medaglia al fine di contribuire, ancora una volta, a sottolineare la complessità della demarcazione fra bene e male, fra vittima e carnefice, fra servo e padrone. Proprio per rendere più evidente questa linea di lettura, ho affidato a un’unica attrice l’interpretazione di entrambi i personaggi, pur mantenendo gli elementi esteriori di opposizione fra di loro: bianco/nero, indole aerea/indole terragna.